sabato 14 giugno 2008

Riprendere Berlino

Da quel 9 luglio 2006 ne è passata di acqua sotto i ponti.
I tifosi juventini ne sanno qualcosa. L'onta del declassamento in cadetteria, la diaspora dei dissidenti, il Risorgimento, la caotica Restaurazione. Quella sera, a Berlino, dodici tracce di Juve in campo, tra passato, presente e futuro.
Due anni dopo, la colonia bianconera in nazionale si è assottigliata. Lippi ha salutato la compagnia, infastidito dall'improvvido affollamento di loschi figuri sul carro dei vincitori e assorbito da questioni familiari. Nesta e Totti hanno alzato bandiera bianca, altri sono stati riassorbiti nei ranghi di onesti mestieranti, o, vedi Gilardino, hanno conosciuto una precoce involuzione. Lo zoccolo duro del gruppo ha tirato dritto e lanciato il nuovo guanto di sfida, seppur usurati da acciacchi e sovrautilizzo. Lo ha raccolto Roberto Donadoni, fresco di cacciata dal Livorno di Spinelli ed ex compagno d'avventura dell'allora vice-commissario federale Albertini. Il prosieguo della storia è noto persino ai muri, il possibile, imminente, sipario rappresenterebbe il match point in mano ai suoi, numerosi, detrattori.
Lo sfilacciato undici presentato alla prima europea gli ha attirato le ire di un popolo di commissari tecnici. Un'Olanda libidinosa dalla cintola in su ha 'spremuto' due degli eroi di Berlino, Materazzi e Pirlo, perni rispettivamente di difesa e centrocampo. Annichiliti loro, è crollata la fragile impalcatura azzurra. La scelta della triade rossonera in mezzo al campo ha suscitato perplessità, sfociate poi in furiose polemiche nel post-partita. Il fu Ringhio Gattuso, riciclatosi attore in pubblicità di successo, è l'ombra del gladiatore di Berlino; il compare Ambrosini sbuffa e scalcia, ma gli dei del calcio sono stati avari con lui. Gli avanti azzurri, capeggiati dall'isolatissimo Toni, vengono ben presto risucchiati, loro malgrado, nel vortice della mediocrità. Le robuste ma tardive iniezioni di qualità, alias Cassano e Del Piero, non intaccano l'inerzia del match. La disfatta di Berna, se non altro, consegna ai sociologi il 'fenomeno Grosso', ibernato per undici mesi e scongelato a giugno, in antitesi rispetto a molti colleghi ormai in riserva.
Errare è umano, perseverare è diabolico. Donadoni, coautore (tra gli altri, il collega Van Basten) di pagine importanti della storia del Diavolo, vede e provvede. Pollice verso per i succitati Ambrosini, Gattuso e Materazzi, in aggiunta all'impresentabile Barzagli e al timido Di Natale, fiducia accordata agli juventini Chiellini e Del Piero, ai romanisti De Rossi e Perrotta e al terzino del Lione. L'arcaico 4-1-4-1 va in soffitta per far spazio ad un inedito 4-3-palla-a-Toni-e-preghiamo. Le quattro ante sfoggiate dai centrali-armadio rumeni fanno pan-dan con l'abilità nel fraseggio dei cervelli nostrani, non fosse per le reiterate sciabolate che vanificano le velleità delle mezzepunte azzurre. I nodi vengono al pettine. Camoranesi in 180 minuti ha sgambettato per il campo senza costrutto, insofferente come sempre agli inquadramenti tattici dell'allenatore ma impalpabile come non mai. Il capitano l'ha vista poco, e, quando Cassano ha fatto capolino tra le linee, è scomparso il panzer del Bayern. Inzaghi, la scaltrezza fatta calciatore, avrebbe fatto comodo, ma qualcuno gli ha preferito Borriello.
Il piatto piange. Quattro pere sul groppone, il doppio rispetto al Mondiale, quando i giustizieri di Buffon furono il compagno Zaccardo e Zidane dal dischetto. Un solo pallone schiaffato alle spalle del portiere avversario, ad opera del difensore Panucci. A fomentare la sterilità offensiva dei Donadoni boys ha contribuito l'arbitro norvegese Ovrebo (reo confesso), ovvero Byron Moreno sotto le mentite spoglie di Mastrolindo. Il suo fischio inconsulto in occasione della zuccata vincente di Toni ha impedito ai nostri di andare al riposo in vantaggio. Non pago, ha regalato un penalty ai rumeni, e solo l'istinto di Buffon ha vanificato cotanta incompetenza. Roba da far impallidire l'oscuro cavillo al quale si appiglia l'UEFA per giustificare il vantaggio di Van Nistelrooy della partita d'esordio.
Inutile piangere sul latte versato. La sfida da dentro o fuori andrà in scena martedì a Zurigo e ci vedrà contrapposti alla Francia di Graziello Domenech. L'Italia non è la sola artefice del proprio destino, e questa, per colei che sfoggia il titolo di campione del mondo, è una prima, bruciante, sconfitta. Lo spettro dell'inciucio incombe, le rassicurazioni di Van Basten sui buoni propositi dei suoi lasciano il tempo che trovano. Non è una questione d'integrità morale, ma d'opportunità. Il primo posto in cascina, il biglietto per i quarti in tasca, il pericoloso incrocio con la Spagna scongiurato, la possibilità di portarsi appresso la modesta Romania concreta. Ecco a voi il delitto perfetto, confezionato dall'ingegneria olandese e dall'inerzia franco-italiana. Nel paese dove la patentà d'onestà è stata assegnata, a tavolino, ai nerazzurri di Milano, ci sarà certamente qualcuno, megafono alla mano, pronto a gridare allo scandalo. L'unico, vero, scandalo, è doversi armare di calcolatrice e regolamento, sperando nella clemenza altrui.

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